La malattia rara è un puzzle da comporre

Massimo e Anita raccontano la malattia della figlia Serena, CDKL5: l’alta complessità, l’associazione, il sorriso

La gravidanza è il tempo dell’attesa, e delle aspettative che porta in grembo. Come sarà, cosa farà? E se si tratta del secondo figlio, ti chiedi: che rapporto avrà col primo? Massimo e Anita sono due insegnanti, e in attesa della seconda figlia, sognavano un camper per viaggiare durante i mesi estivi con le loro due bambine. “Quel sogno stava per coronarsi, così è stato fino ai 15 giorni di vita di Serena quando si è manifestato qualche problema. Quando prendeva la poppata sembrava si affogasse, si bloccava per un attimo e diventava rigida e rossa in viso. Il medico attribuiva questo reflusso gastroesofageo alla voracità con cui la bambina mangiava e ai muchi della nascita. Noi notavamo che c’era qualcosa di strano ma eravamo rassicurati dall’esito dei primi controlli, le visite, la camminata neurologica: tutto era nella norma”.


“Al 35mo giorno di vita, eravamo spensierati a passeggiare a Taranto nell’ultima domenica di Carnevale. Alessandra, la primogenita di due anni e mezzo, era mascherata e giocava con i cuginetti. Serena ebbe un blocco, il quarto della giornata. Erano dunque aumentati questi episodi, la cosa ci allarmò, soprattutto perché per la prima volta si era irrigidita, era andata in ipertono, aveva lo sguardo fisso e le braccia verso l’alto. Non lo sapevamo ancora ma era la sua prima crisi epilettica. Ad Alessandra dicemmo: Andiamo un attimo in ospedale, ora veniamo. E invece dall’ospedale non siamo usciti più. La dottoressa parlò di un problema neurologico e fece ricoverare la bambina in Neonatologia. Il giorno dopo – racconta mamma Anita - fecero ricoverare anche me. Fu complicato spiegare alla sorellina, dividermi da lei. La cosa era più grande di quello che pensavamo”. 


Durante il ricovero emersero la fissità dello sguardo, il rossore in viso, la riduzione degli atti respiratori che rendeva utile l’ossigeno. Era necessario portare la bambina in un centro specializzato. “Qual è il migliore? chiedemmo. Il Gaslini di Genova. E andammo a Genova”. “Alessandra venne con noi, un po’ perché non sapevamo cosa ci aspettasse, un po’ perché eravamo abituati a gestire sempre noi entrambe le bambine. Lei guardava quell’ambulanza e diceva: Che strano questo camper con le luci sopra”. Quel viaggio sognato prese un’altra forma e li portò via per tre mesi, la meta furono le dimissioni con tre farmaci anticonvulsivi e nessuna diagnosi.


Dopo Genova, Bologna, al Policlinico Sant’Orsola, dove prospettarono altre indagini e altre ipotesi ma anche lì le dimissioni avvennero con l’evidenza di una epilessia in corso di definizione diagnostica. Molti altri medici l’hanno visitata dopo, molti altri esami, centri, tentativi. Quando Serena aveva un anno fu il dottor Dalla Bernardina di Verona il primo a dire: La bambina è nata con un difetto. Furono i primi esami genetici, in prima istanza negativi. Serena però stava male, le crisi erano aumentate per frequenza e intensità, Massimo ne prendeva nota in un diario giornaliero.


Fu la volta di un ricovero in un altro ospedale, i medici non diedero speranza. Massimo non ci credette, aveva monitorato la terapia e l’alimentazione per tutta la notte. “La bambina non è nutrita adeguatamente – dissi – o cambiate la pompa o presento denuncia ai Carabinieri, fate attenzione ai dosaggi dei farmaci”. La lotta ha voci, volti, immagini distinte. Quella di Anita è tutta in un paio di mani gocciolanti. “Era un mercoledì. Ero andata in bagno a sciacquarmi le mani, era finita la carta però e così correvo nel corridoio verso la stanza con le mani gocciolanti. Il medico mi fermò e mi disse: Ho appena parlato con suo marito, non credo sua figlia arrivi a venerdì. Rimasi pietrificata. Non riuscivo a capire perché, perché me lo stesse dicendo in corridoio. Mi vide in difficoltà ma non fece nulla, a volte i medici sono poco umani. Rimasi senza respiro. Ferma, per un attimo. Poi, ricordo, entrai nella stanza pienamente forte. Era il momento di essere forti e io lo fui. Mi meravigliai di me stessa”. Cambiando alimentazione e terapia, la situazione migliorò ma restava molto grave: Serena aveva 12-15 crisi al giorno. Non si poteva certo restare a guardare. Massimo e Anita si informarono, studiarono, parteciparono a convegni. E decisero per la camera iperbarica negli Stati Uniti. “Le spese per le cure all’estero furono rifiutate dall’ASL e allora facemmo una raccolta fondi, qualcosa di umiliante ma necessario. Volammo alla clinica Valley Health di Mahopac dove subito riscontrarono delle intolleranze e l’assenza del gene GSTM1 sul cromosoma 1. Accertamenti anche al NYU Medical center di New York e al Columbia hospital approfondirono il quadro. “Iniziammo a comporre il puzzle. Fu proprio tenendo il diario che si poté comprendere molto della situazione ma non la natura delle crisi epilettiche di Serena. Facemmo delle indagini genetiche e senza aspettare esito, per non gravare ulteriormente sui costi, dopo quattro mesi tornammo in Italia. E avemmo una sorpresa: dopo venti giorni chiamò la dottoressa Lorita La Selva, dell’ospedale San Paolo, che collaborava con il professor Dalla Bernardina di Verona. Devo dare due notizie – disse – Una buona e una cattiva. Prima la buona! Dicemmo noi. Abbiamo già avuto troppi tir addosso”. La buona notizia fu la diagnosi. Riesaminando i campioni prelevati tempo prima, la bambina era risultata positiva al CDKL5. Ecco il nome di ciò che stavamo combattendo. Ecco l’importanza della ricerca medica. Per questo stiamo finanziando, con altre famiglie, una ricerca dell’Università di Bologna dedicata a questa patologia”. 


La sindrome CDKL5 è una malattia rara neurologica di origine genetica, deriva infatti dalla mutazione del gene CDKL5 e comporta una serie di sintomi, primo fra tutti una epilessia farmaco resistente. Serena è epilettica, è cieca, ha un grave ritardo cognitivo, è disfagica (non riesce a deglutire), non parla, non riesce a tenere la testa e il busto dritti, non cammina, ha le anche lussate, una scoliosi gravissima per la quale sarebbe necessario un intervento che non si sa se potrà affrontare. “Con lei ogni intervento anche banale diventa complesso. Quando ha messo la Peg (strumento di nutrizione artificiale) ha dovuto fare l’anestesia totale e ha avuto difficoltà a risvegliarsi”. Serena richiede assistenza h24. Le crisi epilettiche sono fluttuanti, di giorno e di notte. Anita e Massimo dormono con un occhio aperto e un orecchio vigile: a volte Serena fa un urlo strozzato, come se avesse ricevuto un pugno nello stomaco, altre volte le crisi si manifestano in silenzio eppure loro se ne accorgono, sentono che cambia il respiro. Poi c’è il lavoro, l’altra figlia, la vita che continua. Sono andati avanti con determinazione, vivendo la loro esistenza con i suoi limiti e la sua normalità. Per Serena e per la famiglia tutta. Facendo tentativi, osservando, per errori e per intuizioni. Come quella della Peg, proposta quando la bimba aveva tre anni e messa solo nel 2022, a 15 anni. Per volere di Anita e Massimo che intuivano quanto per lei, non vedente e con ritardo cognitivo, fosse importante non perdere l’uso della bocca per continuare a esplorare il mondo a modo suo. I medici non erano d’accordo e la responsabilità di alimentarla era altissima ma “la neuropsichiatra che ha in cura Serena da 15 anni mi ha detto poi: Come medico non posso dirlo, come madre devo dire che avrei fatto lo stesso".


“Non è per lamentarci, ma oggettivamente è una situazione complessa”, dice mamma Anita con un garbo fuori dal comune e una delicatezza così grande da saper sorvolare sulla gravità delle cose. La sua levità da un lato, la capacità di osservazione di papà Massimo dall’altra. È così quando si fa un puzzle. Si sta a guardare, si cerca. Si costruisce. Anche per questo hanno costituito un’associazione, Vite da colorare, per unire le famiglie di persone con malattie neurologiche gravi, per avere uno spazio di confronto, di crescita. “Il confronto ci dà forza ma anche dignità, che a volte non ci viene conferita, ce la tolgono. Questa è l’unione dei genitori che si interessano per dare significato all’esistenza propria e dei propri figli. Il nostro motto è: Gli altri siamo noi. Perché è così, tu compri la camicetta della fortuna, giungono i primi regali per la bambina, ti aspetti tante cose, e poi arriva una missione. Una missione d’amore. Anche io non avrei mai immaginato di diventare padre di una bambina con una malattia ad alta complessità. Ma Serena è un dono che ci ha fatto comprendere completamente il senso della vita, quando ci sono persone che pure a 90 anni ancora non l’hanno capito. La famiglia è il nodo della nostra esistenza sulla terra, la nostra ricchezza. È per questo che abbiamo accettato tutto, e lottiamo contro ogni difficoltà”. “Ti fortifica – aggiunge Anita – e ti strema anche”. Eppure lo raccontano con il sorriso dolce di chi ha compreso, di chi ha abbandonato le aspettative e abbracciato il presente. “Spesso i colleghi ci dicono: Quando sto con te sto bene, il tuo sorriso è il mio esempio. Noi non vogliamo dare lezioni, ma è anche una forma di comunicazione che abbiamo adottato”.


Comunicare col sorriso. L’hanno imparato anche le loro bambine. “Quando Alessandra aveva circa sei anni, un’amichetta di scuola le disse: Come fai ad avere una sorella che non ti vede e non ti parla? Non sei arrabbiata? Non ti manca una sorella con cui giocare? Lei rispose: Mia sorella mi risponde, col piedino, con la bocca. Lei è diversa ma è normale così. Alessandra ha vissuto tutto, dormiva con Serena nella culletta, in mezzo ai fili della terapia. Hanno un rapporto di amore profondissimo, un’intesa pazzesca. Il primo sorriso Serena l’ha fatto a lei”. Ed ecco, quando Serena sorride, il puzzle si compone. 

Data di pubblicazione:

17/06/2022

Ultimo aggiornamento:

17/06/2022