Nel nome di una dea

La determinazione si trasmette di madre in figlia: Alessandra racconta la scoperta della malattia polmonare (NEHI) di sua figlia Diana

Quando ho saputo di aspettare una bambina ho desiderato che fosse forte, non volevo che in un mondo che non mi piace potesse essere condizionata o schiacciata dalla volontà altrui. Così abbiamo scelto per lei un nome che fosse un augurio di determinazione: Diana, dea della luna e della caccia.


Mostrando presto il suo carattere, Diana ha sostato nel canale del parto parecchio tempo con la testa verso l’alto. L’ostetrica non lo aveva compreso, fu il ginecologo con una manovra ad agevolare il parto. Diana è nata il 21 luglio del 2018.


I primi tempi stava bene, dal terzo mese ho cominciato ad avvertire un respiro affannoso. L’ho constatato perché Diana è secondogenita e mi era facile, mentre dormivano, confrontare il suo respiro con quello del fratello Mario. Così a ottobre-novembre ho cominciato a sollevare la questione con il pediatra che però non rilevava nulla di anomalo. Dal quarto mese la bambina ha iniziato ad ammalarsi ogni mese: al minimo raffreddore, i muchi scendevano nei bronchi e si rendeva necessario antibiotico e cortisone. Ogni mese chiamavamo privatamente un rinomato pediatra di Bari per farla visitare e anche lui non sottolineava nulla. A ciò si aggiungeva il fatto che la bambina restava piccolina, avremmo scoperto dopo che si trattava di un sintomo della patologia.


A giugno, su mia insistenza, le è stata prescritta una radiografia. Il radiologo volle fare anche un’ecografia per escludere qualsiasi malformazione ai polmoni. Ma non era da lì che si potevano escludere. Io, fidandomi ancora una volta di questi medici, ho continuato a tenere la bambina a casa. Ad agosto, al ritorno da una vacanza in montagna, mentre eravamo in auto alla bambina è salita la febbre, alta. Allora ho insistito nuovamente col pediatra per cercare un’altra strada, per capire: gli ho chiesto se potesse essere una questione allergica. Lui disse che le allergie si sviluppano dai due anni in su e lei aveva 14 mesi. Ma forse pensò “ecco l’ennesima mamma ansiosa” e mi indicò per settembre un’allergologa dell’ospedale San Paolo. Mi chiesero di togliere la maglietta a Diana, la dottoressa la guardò e uscì dalla stanza, io non capivo. Dopo qualche minuto arrivò il primario e in maniera scorbutica disse: Signora, non se n’è mai accorta? È evidente che la bambina ha dei rientramenti sottodiaframmatici. Dispose di chiamare il pediatra. Io lo guardai, ricordo che lui era sempre sull’uscio della porta. “Io non sono un medico – dissi - non sono un medico e non so di cosa stia parlando, non sono io a dovermene accorgere”.


Così, in quella stanza del San Paolo, si è aperto un altro capitolo della nostra vita. Parlarono di possibile tracheomalacia, e la prima cosa che fai, purtroppo, è leggere su internet. Ci prescrissero visita cardiologica, TAC e test del sudore. Quest’ultimo fu quello che più ci spaventò, non ci fece dormire la notte: è il test che esclude la fibrosi cistica. La cardiologa pediatrica confermò il rischio di patologia, parlò di broncomalacia. La cosa importante da sottolineare è che fino a quel momento nessuno ha mai attaccato un saturimetro a Diana. Mai. Oggi penso che se avessi fatto come tanti genitori e l’avessi portata al pronto soccorso quando stava male, anziché chiamare il pediatra a casa, forse non avrebbe aspettato tutti quei mesi. Dopo il referto cardiologico decidemmo di non aspettare e forse non avevamo più fiducia nei medici del territorio: una cugina di mio marito è neonatologa al Bambino Gesù e così il 18 ottobre 2019 Diana fu visitata da uno pneumologo di Roma. Dopo neanche tre minuti, richiese il ricovero urgente.


Prospettarono diversi scenari, molti rischi che mi spaventavano sempre più. Certamente qualcosa c’era: a loro risultava evidente dal respiro della bambina e dai rientramenti. Come prima cosa, le attaccarono il saturimetro e il valore da sveglia era spesso inferiore ai 90. Medici e infermieri provavano a cambiarle posizione, ma il valore restava basso. Non si capacitavano del perché lei avesse la saturazione bassa ma fosse così vispa. Le somministrarono l’ossigeno. Ed era così strano vederla attaccata all’ossigeno, pensare che aveva quella necessità fisica così urgente eppure vederla attiva. Diana è un terremoto, e persino col nasocannula tirava i fili e saltava nel lettino.


Dopo qualche giorno di ricovero le fecero la TAC. La mia paura più grande era la fibrosi cistica. Nell’arco di tre giorni al Bambin Gesù avemmo la diagnosi. Ci chiamarono in una stanza per la comunicazione, io avevo Diana in braccio, senza ossigeno, e quindi dovevamo anche fare abbastanza in fretta per evitare che desaturasse troppo. Iperplasia neuroendocrina dell’infanzia (NEHI). “Certamente non potrà fare tutto quello che faranno i suoi coetanei - disse il medico – per esempio non potrà fare sport agonistici, però la maggior parte dei casi trattati ha avuto una regressione dei sintomi con la crescita, quindi la nostra speranza è quella”. Io in quel momento ho pensato solamente che dovessimo ringraziare perché, nonostante tutto, ci sono patologie più gravi. Ho pensato che lei potesse comunque vivere, vivere la sua vita abbastanza tranquillamente. È quello che continuo a pensare. Quella sera chiamò il pediatra che tante volte l’aveva visitata, voleva conoscere la diagnosi. Mi disse: “Mi dispiace, Alessandra, non conoscevo questa malattia”. Gli risposi con garbo ma non posso non pensare che se almeno avesse riconosciuto i campanelli di allarme saremmo arrivati prima a medici più esperti.


Il ricovero non è stato facile, Mario era con noi a Roma, non capiva bene la situazione anche se sapeva che eravamo lì per degli accertamenti alla sorellina. Mio marito è stato presente tutti quei giorni, oltre venti, mollando l’azienda che dirige. L’abbiamo vissuta pienamente insieme, affrontando il dolore ciascuno a modo suo. Un giorno ci fu quasi uno scontro con un’infermiera. Infermieri e OSS continuavano a ripeterci: “Che fortuna che la bambina non abbia riportato danni nonostante sia stata senza ossigeno per 15 mesi. Anche se -  dicevano - altri danni potrebbero manifestarsi dopo. Come avete fatto a tenerla a casa tutto questo tempo?” Ancora una volta dovetti giustificarmi io, non medico, per non aver capito prima.


Del ritorno a casa ricordo gli occhi di Mario quando per la prima volta vide la sorella con il nasocannula. Mi fece molta tenerezza: non erano spaventati, erano occhi curiosi. Mi chiese: “Perché ha quelle cose lì?” “Le servono per respirare bene”, gli spiegai. “E perché io non le metto?” Fu un dialogo simpatico con il suo sguardo bambino sulla malattia. Ora è normale anche per lui, lo racconta pure ai suoi amici. Certo, non è facile capire per chi non vive queste situazioni. Sono fortunata ora ad avere accanto, oltre mio marito, la ragazza che fa da baby sitter a Diana: una persona che capisce cosa significa la malattia ti dà aiuto e non solamente sostegno. Ricordo invece questa scena terribile della mattina dopo il ritorno a casa, arrivò l’allora baby sitter, vide la bombola grande dell’ossigeno e vide Diana attaccata, e disse: “Che impressione che mi fa”. Lo stesso sguardo l’ho trovato nelle persone che hanno visto l’ossigeno portatile, Diana col nasocannula nel passeggino. La mamma di un bambino con la stessa patologia di Diana e che abita in un piccolo paesino una volta mi ha confidato che non esce mai con suo figlio. “Mi vergogno -  mi ha detto – mi vergogno di quegli occhi che comunicano pena, delle domande che fanno”. Io ho cercato di dirle che non è così, di farle forza. Ma la verità è che c’è tanta ignoranza, la gente non capisce. E non capisce neanche la fortuna che ha. Non voglio pensare all’eventualità che questi sguardi li viva mia figlia. Una domanda che mi pongono spesso è: come sta? Ci sono miglioramenti? La verità è che va meglio rispetto ai primi mesi dopo la diagnosi. Ha avuto bisogno di due ricoveri a Bari, aveva bisogno di molto più ossigeno di adesso. Era sempre attaccata quando mangiava perché lei ha anche la tracheomalacia, un’anomalia della trachea per cui la deglutizione andava a ostruire la respirazione. Era difficile tenerle l’ossigeno quando ha imparato a camminare. Ora va meglio, tiene l’ossigeno di notte, non più di giorno. Però altri miglioramenti non ne vedo, mentre so che che altri bambini riescono a stare anche mesi senza ossigeno. Lei no, è stabile, non c’è notte che non debba attaccarla, ora è la normalità anche per lei. Ogni sera sa che deve mettere saturimetro e nasocannula. Lo accetta. Ne è cosciente senz’altro anche se ancora non mi chiede: perché io lo metto e Mario no? Vedremo. Ecco, lo accetto anche io. Non voglio e non me la sento però di pensare a questo futuro per lei. Ho deciso di viverla alla giornata.


All’inizio ti senti persa, unica al mondo. Non sai come andare avanti. E allora cerchi il confronto. Io provai a chiedere in ospedale di mettermi in contatto con altre famiglie ma non fu possibile, una persona a me cara riuscì a trovare una mamma tramite un gruppo Facebook e da lì siamo arrivate a quattro. I casi sono pochi, al Bambino Gesù fino a un anno e mezzo fa c’erano state sette diagnosi, poche anche al Meyer di Firenze. Fare rete per me è fondamentale. Siamo poche al momento però aiuta, anche solo per condividere suggerimenti sulla parte burocratica, la 104, il saturimetro dell’ASL, come fare in vacanza. E poi monitoriamo, ci aggiorniamo sui vari cambiamenti. Purtroppo è una malattia scoperta solo di recente, i bambini cui è stata diagnosticata hanno al massimo otto anni. Non conosciamo l’evoluzione.


Al momento l’evoluzione è la mia: questa situazione mi ha radicalmente cambiata. Ho un approccio alla vita molto differente. Ormai non esiste e non può esistere cosa che sia più importante e più grave di una malattia. Ho riparametrato gli eventi, affronto la vita in maniera molto più leggera. Questo mi rende quasi fastidiosa agli occhi di chi mi sta vicino: a volte mi raccontano con enfasi cose che per me sono stupidaggini. Mi rendo conto che risulti poco carino, sembra che non dia importanza a ciò che mi stanno dicendo. Ma questo è affrontare un dolore così grande. Questo è convivere con la paura. 


La paura è ormai parte di me. Prima mi sentivo più forte, quasi invincibile, oggi mi perseguita giorno e notte. Non c’è più differenza tra il giorno e la notte. Continuo a pensare a tutto ciò che può succedere. Diana ha deciso di camminare a tre anni, di parlare a tre anni e mezzo. Ha avuto uno sviluppo motorio e del linguaggio molto più lento dell’ordinario e questo per noi è stato un incubo. A me veniva sempre in mente l’immagine di quell’infermiera che parlava dei danni di 15 mesi senza ossigeno. Conviviamo con la paura di cosa può accadere quando si ammala, uno stranuto diventa un rischio di ricovero. E pensi al peggio, cosa che con il primo bambino non accadeva, è un’ansia continua, la paura di tutto ciò che non puoi gestire, non puoi controllare. Difficile dire cosa sia stato il Covid per noi, il terrore che entrasse in casa nostra. Ed è entrato.


Sono certa che è la mia attitudine ad aiutarmi, la mia scelta di vivere la malattia un passo per volta, giorno per giorno. Ho la sensazione che nessuno mi possa aiutare, è un dolore troppo personale, non posso cercare né soluzioni né aiuto in altri, tanto la paura non te l’allevia nessuno. Ma io posso, posso pensare sempre e solo positivo ed evitare che questa paura mi schiacci.


La condizione di Diana ha cambiato noi, e ci ha fatto anche cambiare casa. Da un appartamento ci siamo spostati in una villa all’interno di un complesso, per darle modo di vedere altri bambini. Diana infatti, oltre che per il Covid, non ha potuto frequentare l’asilo nido. Ce l’hanno subito vietato per i rischi che correva ammalandosi. Lei è anche fortunata perché ha un fratello, a differenza di altri bambini con la sua patologia: essendovi un tratto genetico (anche se il gene non è stato ancora identificato) la malattia si ripete spesso in più figli. Fratello a parte, Diana ha vissuto inverni ed estati da sola. Da tre-quattro giorni le stiamo facendo fare una nuova esperienza: visto che i casi Covid sono calati e che le nuove varianti fanno meno paura rispetto a quella che purtroppo ha preso il papà, l’abbiamo iscritta ad un campo estivo. Per lei è un’esperienza molto positiva e per noi è una gioia vederla giocare, sentire i suoi racconti: “Ho giocato a tennis, a basket, a calcio”. Il calcio lo ama, più di suo fratello. Adora un cagnolino, gli mette la mano in bocca e ripete 45 volte al minuto: “Vieni a casa con me?” Gli piace giocare con i maschietti, specie più grandi di lei, dell’età di Mario. Certo il suo giocare non è ancora condividere molto, non è abituata, ha sempre avuto tutte le attenzioni che richiedeva. Ma è bellissimo vederla correre, continuamente, fino allo sfinimento. Canta, balla, salta, è sempre in movimento e questo aiuta. Sono certa che avrei sofferto molto di più se l’avessi vista in difficoltà. Come infatti soffriamo quando si ammala e non è affatto semplice ma in proporzione sono molti di più i momenti in cui è incredibilmente attiva. È un moto continuo. Credo che questo suo carattere la aiuti anche a camuffare i suoi limiti. È caparbia, è forte, è egocentrica! Ce le ha tutte. E allora qualcuno mi dice: “L’hai voluta tu così”. E io dico: Sì, l’ho voluta io così.

Data di pubblicazione:

17/06/2022

Ultimo aggiornamento:

17/06/2022